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Le trame invisibili del sistema dell'attaccamento: la neuropsichiatria del legame e del sé

C’è un filo silenzioso che ci lega, invisibile ma costante. È il filo dell’attaccamento: una mappa biologica e affettiva che si disegna dentro di noi fin dalle prime esperienze relazionali. Oggi, la neuropsichiatria dell’attaccamento tenta di leggere quella mappa nel linguaggio del cervello, dei neurotrasmettitori e dei processi mentali che danno forma alla nostra identità relazionale.

Dall’abbraccio alla sinapsi: un’evoluzione di significato

L’intuizione di John Bowlby – che il bisogno di legame è un istinto primario, non una semplice emozione – è stata una svolta. Oggi, grazie alla ricerca neuroscientifica, possiamo osservare come il cervello viva la connessione: come i sistemi di attaccamento e di regolazione emotiva si intreccino con i circuiti della paura, della memoria, del piacere e della fiducia.

Le neuroscienze dell’attaccamento mostrano che il legame non è un concetto psicologico astratto, ma un processo neurobiologico incarnato.

Il linguaggio del cervello: circuiti, ormoni, memoria del corpo

I circuiti della sicurezza e della paura

Amigdala, corteccia prefrontale, insula, ippocampo: è in queste aree che si scrive la grammatica dell’attaccamento.Un attaccamento sicuro permette a queste regioni di cooperare: l’amigdala avverte, la corteccia regola, l’insula integra sensazioni e affetti. Ma quando il legame è instabile o traumatico, questa sinfonia si disaccorda: l’allarme prende il sopravvento, la calma si dissolve, la fiducia diventa un ricordo.

Le molecole del legame

L’ossitocina resta la protagonista del legame, favorendo fiducia e sintonizzazione. La dopamina rinforza il desiderio di vicinanza, mentre gli oppioidi endogeni donano quiete e appartenenza. Ma l’ambiente plasma la biochimica: stress cronico, rifiuto o trascuratezza modulano questi sistemi, creando pattern di vulnerabilità che si riflettono sul tono affettivo e sulla capacità di stare in relazione.

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Epigenetica e plasticità relazionale

Oggi sappiamo che l’attaccamento lascia tracce nei geni.Le esperienze precoci di cura – o di mancanza – modificano l’espressione genica tramite meccanismi epigenetici, influenzando la risposta allo stress, la sensibilità affettiva e la regolazione emotiva. In questo senso, ogni relazione è un atto biologico: costruisce o disfa reti neuronali, apre o chiude possibilità.

Quando il legame si incrina: personalità e vulnerabilità psichica

Il filo dell’attaccamento, quando si tende troppo o si spezza, può diventare il nucleo di molte sofferenze psichiche.

Attaccamento e disfunzione di personalità

Nel loro lavoro, Beeny et al. (2017) descrivono la disfunzione di personalità come una compromissione nella capacità di mantenere un senso coerente di sé e di costruire relazioni stabili.Il modello propone che questa vulnerabilità derivi da fallimenti precoci nei sistemi di attaccamento e di regolazione affettiva, che lasciano il soggetto oscillare tra dipendenza e chiusura, idealizzazione e disprezzo, bisogno e paura.

Da una prospettiva neuropsichiatrica, questi schemi relazionali non sono semplicemente appresi: sono incisi nel funzionamento del cervello.Le regioni coinvolte nella percezione del sé e dell’altro – come la corteccia cingolata, l’amigdala e la corteccia orbitofrontale – mostrano pattern di attivazione alterati nei disturbi di personalità, in particolare in quelli di tipo borderline.

Mentalizzazione: il ponte tra cervello e relazione

Qui entra in gioco la mentalizzazione, il processo che ci consente di “leggere la mente” dell’altro e di noi stessi, riconoscendo che dietro ogni comportamento c’è uno stato mentale.

Peter Fonagy e Antony Bateman hanno mostrato come la capacità di mentalizzare nasca nel contesto dell’attaccamento sicuro: il bambino impara a comprendere sé stesso attraverso lo sguardo riflessivo del caregiver. Quando questo processo fallisce – perché l’adulto è incoerente, spaventato o spaventante – il bambino perde il senso della mente come spazio sicuro e prevedibile.

Da un punto di vista neuropsichiatrico, la mentalizzazione coinvolge una rete distribuita: corteccia prefrontale mediale, giunzione temporo-parietale, amigdala e sistema limbico. Un deficit in questa rete compromette la capacità di integrare emozione e cognizione, generando confusione identitaria e instabilità relazionale.

Il legame come cura: la terapia come nuovo laboratorio del sé

In psicoterapia, la relazione stessa diventa un esperimento di neuroplasticità. Ogni incontro, ogni sintonizzazione, ogni pausa condivisa attiva nuove connessioni tra aree cerebrali, rafforzando la regolazione affettiva e la capacità di mentalizzare.

La terapia basata sulla mentalizzazione (MBT), sviluppata proprio da Fonagy e Bateman, è una delle risposte più promettenti a queste fragilità. Attraverso il dialogo e l’esplorazione condivisa degli stati mentali, il paziente impara a osservare le proprie emozioni senza esserne travolto. Il terapeuta diventa una “base sicura” che permette di trasformare la reattività in consapevolezza.

Il ritorno al filo

La neuropsichiatria dell’attaccamento, in fondo, è una scienza della connessione. Non studia solo il cervello, ma la sua capacità di sentire l’altro come parte di sé. Ogni legame sicuro, ogni esperienza di riconoscimento reciproco, rieduca il sistema nervoso alla calma, alla fiducia, alla presenza.

Beeny e colleghi ricordano che la salute mentale non è assenza di sintomi, ma integrazione: la capacità di restare interi di fronte alla complessità delle relazioni.E la mentalizzazione è il ponte che ci consente di attraversare quella complessità senza perderci.

Forse, la vera guarigione comincia quando comprendiamo che l’altro non è una minaccia, ma uno specchio. E in quello specchio – fragile, ma reale – il cervello ritrova la sua musica più antica: quella dell’attaccamento che respira, sente, e ricuce.

 
 
 

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