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Traumi transgenerazionali e cura: la memoria che attraversa le generazioni

Negli ultimi anni la psicologia clinica e le neuroscienze hanno rivolto crescente attenzione al tema del trauma transgenerazionale, cioè alla possibilità che le esperienze traumatiche di una generazione possano influenzare la salute psicologica e relazionale delle generazioni successive. La sofferenza, in questi casi, non si trasmette solo come memoria consapevole, ma anche attraverso il corpo, le emozioni e le relazioni.

Il concetto di trasmissione intergenerazionale del trauma è stato inizialmente esplorato negli anni ’60 e ’70 attraverso gli studi sui figli dei sopravvissuti all’Olocausto (Danieli, 1998; Barocas & Barocas, 1979). Queste ricerche mostrarono come i figli di persone che avevano vissuto esperienze traumatiche estreme potessero manifestare ansia, ipervigilanza, senso di colpa o difficoltà relazionali, pur non avendo sperimentato direttamente il trauma. Da allora, la nozione è stata ampliata fino a comprendere anche traumi collettivi come guerre, genocidi, migrazioni forzate e violenze politiche (Kellermann, 2001; Hirsch, 2008).

Le vie della trasmissione del trauma

Uno dei meccanismi più studiati riguarda la trasmissione relazionale. Il trauma non elaborato tende a riemergere nella relazione genitore-figlio sotto forma di comportamenti di iperprotezione, distacco emotivo, silenzi o segreti familiari. Come osserva Schore (2012), le esperienze traumatiche non integrate compromettono la regolazione affettiva dell’adulto e, di conseguenza, la capacità di rispondere in modo sintonico ai bisogni emotivi del bambino. In questo modo, il dolore del passato può trasformarsi in un’eredità emotiva che attraversa le generazioni.

Nelle famiglie colpite da traumi si osservano spesso memorie frammentate o taciute. Il non detto, il segreto o il silenzio diventano parte dell’atmosfera affettiva in cui crescono i figli, i quali, senza comprenderne l’origine, percepiscono un senso di minaccia o di perdita. Marianne Hirsch (2008) ha descritto questo fenomeno come postmemory, ossia la memoria ereditata da chi non ha vissuto direttamente l’evento ma ne sente comunque il peso affettivo.

Un’altra via di trasmissione riguarda la dimensione culturale e sociale. Le comunità che hanno vissuto eventi collettivamente traumatici – come conflitti armati o persecuzioni – possono mantenere una memoria culturale condivisa che influenza le generazioni successive. Studi condotti su discendenti di popolazioni colpite da genocidi o schiavitù mostrano come l’identità collettiva e la narrazione storica del gruppo possano diventare parte integrante del vissuto psicologico individuale (Brave Heart, 1998; Mohatt et al., 2014).

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Trauma collettivo e le generazioni future: il caso del conflitto in Palestina

Un esempio attuale e drammaticamente eloquente del trauma transgenerazionale è rappresentato dal conflitto in Palestina. Le ricerche psicologiche condotte negli ultimi vent’anni nelle aree di guerra cronica, tra cui Israele e i Territori palestinesi, mostrano come l’esposizione prolungata alla violenza, alle perdite e alla precarietà quotidiana lasci segni profondi non solo sugli individui direttamente coinvolti, ma anche sui loro figli (Thabet, Vostanis & Karim, 2021; Srour & Srour, 2006).

I bambini che crescono in contesti di conflitto prolungato sperimentano livelli elevati di ansia, insonnia, disturbi post-traumatici e difficoltà nella regolazione emotiva. Tuttavia, ciò che preoccupa maggiormente gli psicologi dell’età evolutiva è l’effetto a lungo termine di queste esperienze: la trasmissione del trauma attraverso la relazione genitoriale, la narrazione familiare e la cultura della sopravvivenza. Studi longitudinali hanno evidenziato che genitori traumatizzati dal conflitto tendono, anche involontariamente, a comunicare ai figli un senso pervasivo di minaccia e impotenza, influenzando il loro sviluppo emotivo e la loro capacità di fidarsi del mondo (Punamäki et al., 2019).

La ripetizione ciclica della violenza, unita alla perdita di luoghi sicuri e di riferimenti stabili, alimenta un trauma collettivo che rischia di cristallizzarsi come parte dell’identità culturale delle generazioni successive. Questo tipo di trauma, descritto da Volkan (2019) come “trauma scelto”, non riguarda solo la sofferenza personale, ma diventa parte della memoria collettiva di un popolo, trasmessa attraverso le storie, le immagini e i rituali quotidiani.

Nonostante ciò, diversi studi condotti da ricercatori palestinesi e internazionali (Qouta, Punamäki & El-Sarraj, 2008; Thabet & Vostanis, 2015) mostrano anche la presenza di importanti fattori di resilienza: la solidarietà comunitaria, la religione, la cultura della resistenza e la coesione familiare possono attenuare gli effetti psicologici del trauma e favorire la speranza. L’elaborazione collettiva del dolore, quando sostenuta da interventi psicosociali e programmi di sostegno al benessere familiare, si rivela una risorsa essenziale per prevenire la trasmissione del trauma alle generazioni future.

Il conflitto in Palestina, come altri scenari di guerra cronica, ci ricorda dunque che il trauma non è solo un evento individuale, ma un processo storico e culturale che, se non viene riconosciuto e affrontato, rischia di diventare un’eredità emotiva collettiva. La psicoterapia, in tali contesti, non può che integrarsi con azioni di giustizia sociale e ricostruzione comunitaria, perché la guarigione di un popolo passa anche attraverso il riconoscimento del suo dolore e la possibilità di immaginare un futuro diverso.

Le manifestazioni cliniche

Sul piano clinico, la trasmissione del trauma può manifestarsi in vari modi. I figli o i nipoti di persone traumatizzate presentano spesso ansia, ipervigilanza, disregolazione emotiva o difficoltà nelle relazioni intime (Yehuda & Lehrner, 2018). In altri casi si osserva una tendenza alla ripetizione di dinamiche familiari disfunzionali, una sorta di “lealtà invisibile” verso il dolore degli antenati, come descritto da Boszormenyi-Nagy e Spark (1973).

Non si tratta, tuttavia, di una diagnosi codificata. Non esiste un “disturbo del trauma transgenerazionale” nel DSM-5, ma piuttosto una cornice concettuale utile per comprendere certi pattern clinici complessi. Come sottolinea Van der Kolk (2014), il trauma tende a rimanere “non pensato ma agito”, inscrivendosi nei comportamenti, nel corpo e nelle relazioni piuttosto che nella memoria verbale.


Gli interventi di cura

Il riconoscimento della dimensione transgenerazionale ha spinto la psicoterapia a sviluppare approcci più ampi e integrati.

L’approccio sistemico-relazionale è particolarmente indicato per esplorare le dinamiche familiari che perpetuano il trauma. Attraverso il lavoro congiunto sulle relazioni tra genitori e figli, o tra più generazioni, si cerca di portare alla luce i segreti, i silenzi e le fedeltà invisibili che mantengono vivo il dolore. Questo tipo di terapia consente di restituire voce alla storia familiare e di costruire una nuova narrativa condivisa (Andolfi, 2016).

Le terapie focalizzate sul trauma, come l’EMDR (Shapiro, 2018), vengono sempre più spesso applicate anche in casi di trauma ereditato. Il lavoro consiste nell’elaborazione delle memorie traumatiche implicite e nel ristabilire un senso di sicurezza nel presente. In questo processo, anche se il paziente non ha vissuto direttamente l’evento, può rielaborare emozioni e immagini legate al trauma familiare interiorizzato.

Un ruolo importante è svolto dalla terapia narrativa, che permette di dare senso alla propria storia e a quella del proprio sistema familiare. Raccontare significa integrare: attraverso il racconto, le esperienze traumatiche diventano pensabili e collocabili in una trama di significato. Come scrive White (2007), il linguaggio narrativo è uno strumento di riappropriazione identitaria e di trasformazione della sofferenza.

Infine, approcci basati sulla consapevolezza corporea e somatica (Ogden et al., 2006; Levine, 2010) sottolineano che il trauma non risiede solo nella memoria mentale, ma anche nel corpo. Il lavoro sul respiro, sulla postura e sulle sensazioni fisiche aiuta a sciogliere la tensione accumulata e a recuperare la connessione tra corpo ed emozione.

In tutti questi approcci, un obiettivo fondamentale è la costruzione di resilienza generazionale. Le famiglie non trasmettono solo ferite, ma anche risorse, strategie di adattamento e capacità di cura. La psicoterapia mira a valorizzare questi aspetti, favorendo la possibilità di una “riparazione” simbolica tra passato e presente.

Questioni aperte e prospettive

Nonostante l’ampia diffusione del concetto, la ricerca sul trauma transgenerazionale resta in parte esplorativa. Yehuda e colleghi (2016) sottolineano che, pur esistendo correlazioni tra il trauma genitoriale e le difficoltà dei figli, non è sempre possibile stabilire una relazione causale diretta. I fattori ambientali, le dinamiche familiari e il contesto socio-culturale giocano un ruolo determinante nel modulare la trasmissione del trauma.

C’è inoltre il rischio di utilizzare il concetto di trauma transgenerazionale in modo eccessivamente generalizzato, trasformandolo in una spiegazione universale per qualsiasi disagio familiare. È quindi necessario mantenere un equilibrio tra riconoscere il peso della storia e promuovere la responsabilità individuale nel presente.

Dalla trasmissione alla trasformazione: il potere riparativo della memoria

Il trauma transgenerazionale ci ricorda che le nostre vite sono intrecciate con quelle di chi ci ha preceduto. Le esperienze traumatiche, se non trovano parole o riconoscimento, possono continuare a vivere nelle generazioni successive sotto forma di emozioni non elaborate, sintomi o modelli relazionali. Tuttavia, questa eredità non è un destino ineluttabile.

La psicoterapia offre uno spazio di trasformazione in cui la memoria può essere narrata, integrata e finalmente liberata. L’obiettivo non è cancellare il passato, ma renderlo pensabile e riconoscibile, affinché non venga più agito inconsciamente. Attraverso la parola, la consapevolezza e la relazione terapeutica, il dolore può diventare conoscenza e la memoria può trasformarsi in risorsa.

Come scrive Van der Kolk (2014), “il corpo conserva il punteggio”, ma è anche il luogo in cui la guarigione può avvenire. E come suggerisce Andolfi (2016), quando una famiglia riesce a riconoscere il proprio passato, può interrompere la catena della sofferenza e aprirsi a una narrazione nuova, più libera e vitale.

 
 
 

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